Il
Fondatore - Giuseppe Altavista
Giuseppe Altavista nasce a Brienza (Potenza) il 22 marzo 1914. Negli studi,
come negli anni della fanciullezza e dell’adolescenza, viene seguito da uno
zio sacerdote, perché orfano di padre, già in tenera età. Sarà proprio suo
zio, don Nicola Altavista – vicario generale della Diocesi di Rossano, in
Calabria – a prendersi cura di lui fornendogli tutto l’aiuto materiale e
spirituale di cui ha bisogno. In un primo momento sembra indirizzato verso la
carriera ecclesiastica, ma alla vita del sacerdozio Giuseppe preferisce
seguire quella giuridica. Si iscrive alla prestigiosa Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università degli Studi “Federico II” di Napoli,
conseguendo la laurea, nel 1937, con il massimo dei voti.
Nel 1939 entra nella Magistratura con l’incarico di sostituto procuratore
della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna. Nel novembre del 1940, in
seguito all’entrata in guerra dell’Italia, viene richiamato alle armi con il
grado di tenente e destinato al fronte greco-albanese dal 1941 al 1943, dove
si distingue per il suo coraggio in pericolose missioni, tanto da ricevere la
croce al merito di guerra. Nel marzo del 1943, in quanto magistrato, è
assegnato quale sostituto procuratore al Tribunale militare di guerra delle
Forze Armate per la Grecia, ad Atene. Dopo l’armistizio dell’8 settembre,
viene catturato dai tedeschi e deportato nel campo di concentramento di
Buchenwald in Polonia; malgrado le condizioni di vita disumane e i lavori
forzati che è obbligato a svolgere, rifiuta con sdegnosa signorilità le
diverse sollecitazioni che gli provengono dagli ufficiali tedeschi (e da
alcuni connazionali) di sottoscrivere l’adesione alla Repubblica Sociale
Italiana in cambio della libertà. Sarà liberato nel 1945 dalle Forze
Alleate.
Rientrato in Italia, nonostante questi terribili trascorsi, e ancora in
pessime condizioni fisiche, non avanza alcuna richiesta di indennità al
Governo italiano, ritenendo di aver fatto soltanto il proprio dovere di
soldato, di magistrato e di cittadino; gli sarà poi attribuito il distintivo
della guerra di liberazione, come partigiano. La sua carriera nella
Magistratura riprende lentamente. Al Ministero di Grazia e Giustizia approda
nel 1950 con incarichi di responsabilità a livello dirigenziale in diversi
uffici. Nel 1969 svolge funzioni di vice-capo presso il Gabinetto del
Ministro, dove successivamente riceverà la nomina di capo del Gabinetto.
Nel 1973,
il Ministro Mario Zagari lo nomina Direttore Generale degli Istituti di
Prevenzione e Pena. Il suo impegno per l’Amministrazione penitenziaria lo vede
attivo e perseverante: si prodiga per il risanamento delle Istituzioni per i
minori e per il miglioramento delle condizioni di vita negli Istituti di pena:
“resti la pena come necessità inderogabile - diceva Altavista - alla difesa
sociale, ma il suo contenuto si trasformi finalmente in quanto elemento
catalizzatore, perché possa essere data la spinta al ritorno dei detenuti
nell’ambito sociale, come uomini liberi e validi e non più ai margini della
società”.
Altavista intuiva che gli obiettivi prefissati di “chiudere con il vecchio
e guardare al nuovo” sarebbero stati raggiunti solo se a tutte le
professionalità fosse stata assicurata una valida e specifica formazione di
base e un periodico aggiornamento, per le mutate esigenze secondo le nuove
direttive internazionali, per questo si prodigò per l’istituzione di
specifiche scuole di formazione.
Con altrettanto impegno si batte per fare ottenere i dovuti riconoscimenti
agli agenti di custodia (oggi Polizia penitenziaria). Per l’intero Corpo,
Giuseppe Altavista ha manifestato sempre una grande stima e grande
apprezzamento. Si è battuto per elevare la posizione di questo ruolo tra i
Corpi di Polizia, per dare la dovuta dignità e i dovuti riconoscimenti a
persone che hanno sempre lavorato nel silenzio, spesso nella solitudine di
lontane isole e in situazioni proibitive. Altavista sosteneva che il Corpo
degli Agenti di Custodia possedeva potenzialità che l’avrebbero reso
socialmente più brillante, in particolare se chiamato a svolgere attività di
tipo “trattamentale” e non soltanto “custodiale”, così da realizzare una
“amministrazione penitenziaria nuova”, secondo i dettati della Carta
costituzionale, al fine di assicurare condizioni di vita, all’interno delle
istituzioni penitenziarie, più umane per tutti. In tal senso il suo massimo
impegno per il miglioramento del sistema degli Istituti di pena è approdato
anche in Parlamento per la discussione e l’approvazione della legge del 1975,
n. 354, di riforma dell’Ordinamento penitenziario.
Negli ultimi anni della sua vita lavorativa si trovò ad affrontare il
periodo buio del terrorismo; profuse ogni sua energia per mantenere fermi i
principi dello Stato di diritto all’interno delle carceri. Per questo era
segnato nella lista delle Brigate Rosse tra le persone da colpire; nonostante
ciò non venne mai meno all’impegno del lavoro fino alla sua morte, avvenuta
improvvisa il 30 dicembre 1979, in piena attività di servizio.
Il dolore e un rimpianto per la prematura scomparsa indussero i suoi
collaboratori e le Autorità del momento a titolare alla sua memoria l’Istituto
penale per minori di Eboli, l’Istituto penale per minori di Lecce, e il
“Centro Studi Penitenziari” di Roma, oggi “Centro Amministrativo”, con
l’annesso Museo criminologico e Biblioteca storica.